lunedì, marzo 12, 2012

Con gratitudine e ammirazione, ringrazio Lucianna Argentino.

Accade, a volte, a qualcuno di arrivare a un punto della propria esistenza in cui sente di dover trasformare in scrittura e attraverso la scrittura quello che dentro preme. Come se la vita vissuta fosse arrivata a un tale punto di surriscaldamento che alla fine, come un vulcano, erutta, esplode. E il fare poesia di Iago così come è espressa in questo suo nuovo libro “L'alibi perfetto”, Bel-Ami edizioni, sembra proprio un'eruzione di parole e di cose che egli sente l'urgenza di tradurre sulla pagina. Il rapporto fra Iago e la scrittura è un rapporto recente, ma molto intenso e viscerale perché, ed è egli stesso ad affermarlo, in lui c'è sempre stata una “predisposizione poetica verso la vita”. Predisposizione che lo ha portato ad essere vicino agli “ultimi”, ai reietti della società ed è stato, forse, il contatto così forte con questa umanità dolente a fecondare il seme di poesia che covava nel suo intimo e che a poco a poco è sbocciato. D'altra parte è lui stesso, nella nota dell'Autore, a dire che questo libro è dedicato “ai dimenticati, ai mai nominati, ad ogni fantasma urbano”. La tensione lirica che percorre il libro è tutta volta, dunque, verso il tentativo di descrivere ciò che il suo sguardo coglie non solo della realtà che ci circonda, ma della realtà che è dentro di noi e soprattutto a come questa si manifesti poi nei nostri atti non sempre coerenti con ciò che realmente siamo e con ciò che realmente sentiamo. Negli anni Sessanta del Novecento critici e poeti per dire la loro incapacità di comunicare hanno inventato una formula molto calzante “la comunicazione della non – comunicazione”. Questo per dire che la vexata quaestio di poesia non poesia occupa da tempo le menti di quanti la poesia, per un motivo o per un altro, frequentano. Questo anche per dire che Iago nel suo libro sembra percorrere il problema sorvolandolo, ossia tenendolo d'occhio ma seguendo la sua rotta, rimanendo fedele a se stesso come giustamente nota Letizia Leone nella prefazione. Letizia Leone parla anche di “disincanto” che se è presente per quell'aria “canzonatoria” che spira per tutto il libro, non credo sia l'elemento dominante perché di solito una delle connotazioni più forti dell'essere poeti è proprio la capacità di “incantarsi”, di stupirsi. Il disincanto e insieme una certa amarezza che si esprime attraverso una dolente ironia, sono, quindi, nella sua visione della vita, ma non nell'atto con cui egli la trasporta sulla pagina. C'è da aggiungere, tuttavia, che in alcuni versi egli esprime il suo dubbio legittimo sull'efficacia della poesia: “L'odierna creanza/ è un endecasillabo cieco/non può legare ciò che non vede”. Trovo che l'immagine dell'endecasillabo cieco sia molto bella e azzeccata oggi che la poesia sembra aver perso i punti di riferimento del passato e mi sembra si vada tutti, e non solo in poesia, a tentoni. Che tutti si brancoli nell'oscurità e nell'incertezza di questi tempi. Così per contrastare l'incertezza e fare un poco di luce nell'oscurità Iago mette una lente davanti al suo cuore. Prendo questi versi da una poesia di Aldo Palazzeschi, (leggerla) scritta in realtà, in polemica con la poesia del suo tempo, con Corazzini, in particolare, trasportando su un registro di satira e di parodia gli affetti che Corazzini aveva espresso con straziante malinconia. Sottolineando e facendosi portavoce dell'”impossibilità della poesia”, a patto di non essere più, come volevano i padri, incitamento, ammaestramento, poesia civile o patriottica. Impossibilità della poesia molto avvertita in quegli anni di transizione e che ciclicamente si ripresenta. Iago, dunque, mette il suo cuore sotto la lente della poesia per esprimere insofferenza verso il nostro esserci rassegnati al passo mediocre di questi tempi. La poesia, dunque, come antidoto all'intossicazione che ci avvelena tutti e di cui spesso non ci rendiamo conto, chiusi come siamo nelle nostre abitudini, in convinzioni asfittiche, nel continuo dubitare e resistere a ciò che è l'essenza della nostra umanità. La poesia come solidarietà, come amicizia. perché i poeti hanno “il coraggio dei sani di cuore” e attraverso la loro poesia ci dicono che non è mai troppo tardi, che per ognuno può arrivare il momento del cambiamento, del rinnovamento, l'importante è saperlo cogliere e farne vita vissuta. In tre versi della poesia “Dedica” Iago esprime una sorta di dichiarazione di poetica: “La morte del coraggio, la proliferazione del virus mediocrità / l'indifferenza dei custodi del credo,/ danno forma al mio errare”. E più avanti: “Diventare è soffrire”. Là dove l'errare dà il senso del come il fare poesia sia un vagare senza punti fermi, senza dogmi o pregiudizi e sia pure un diventare, un trasformarsi con lei e per mezzo di lei, un continuo rinnovare e rinnovarsi che ad ogni cambiamento provoca travaglio e dunque sofferenza. Questi versi, pertanto, potrebbero essere presi ad emblema del percorso poetico dell'autore e pure della misura di come e quanto l'indignazione sia la molla che lo spinge a scrivere, a usare la poesia vissuta come un “errare” tra le pieghe della vita con la consapevolezza del posto che essa occupa nella sua esistenza. Esistenza di cui egli avverte la caducità e le contraddizioni e di queste scrive. Racconta, infatti, di un'umanità in bilico su se stessa, in balia di se stessa e delle proprie paure e spesso i suoi versi risuonano di una cinica ironia in cui si avverte, tuttavia, il desiderio di scuotere il prossimo, di renderlo consapevole del tempo che scorre sulle nostre vite e della possibilità di viverlo pienamente che è data ad ognuno di noi. Nonostante ciò, nella poesia di Iago non sembra esserci salvezza – c'è sempre quell'endecasillabo cieco, emblema e metafora del silenzio incombente e minaccioso, - e questo si evince anche dallo stile della sua scrittura che si esprime attraverso un linguaggio in sintonia con la sua visione delle cose quindi non lirico ma anzi a tratti duro, secco, incalzante e stridente così come le immagini che usa e che poco spazio lasciano alla speranza di una redenzione. Sono immagini epigrammatiche, a volte dissacranti, asciutte che stridono come sabbia nella bocca. Per questo molte sue poesie e in particolare quella che chiude il libro, “Liturgia italiana”, sembrano costituite da un insieme di epigrammi, appunto, o aforismi tanto che ogni due o tre versi presi a sé hanno una loro valenza semantica completa e questo accade anche in altre poesie in cui i versi sembrano scaturire da un corto circuito iniziale e quindi si esprimono per lampi, per immagini immediate, per suggestioni subito impresse sulla pagina.


Eppure, concludendo, Iago dice di scrivere versi per avvicinarsi al segreto respiro delle cose, eppure già lo scrivere è un atto di fede che nessun disincanto può soffocare.

1 Commenti:

Blogger Sab73 ha detto...

Ciao Iago... ti ho ritrovato!
Un abbraccio e fatti sentire ogni tanto! (non rispondi alle mie email... :-()

11:33 AM  

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